Quanto interesse suscita questa campagna elettorale soufflé? Se diamo retta ai sondaggi che oggi darebbero la vittoria al partito dell’astensione, la sfida tra politici di lungo e medio corso e new entry, incuriosisce più per l’abbondanza di promesse e l’impossibilità a mantenerle, che per i programmi. Che fine hanno fatto i programmi? A meno di non considerare tali i soliti slogan elettorali simili alle pubblicità sul dentifricio, o sull’antinevralgico , o sul detersivo, i programmi sono i veri assenti. Più lavoro per i giovani, lotta alla povertà, meno diseguaglianze, più welfare, società più giusta, salvaguardia dell’ambiente.. Intenzioni rispettabili, anche condivisibili. Ma non sono programmi. Un programma è il risultato di un esame attento della realtà e di un progetto Paese che contenga delle priorità e indichi chiaramente dove andare a prendere i soldi per attuarle. Sembra invece che la priorità per tutti sia l’abolizione di qualcosa: del bollo sulla prima auto, della tassa sulle successioni e le donazioni, della legge Fornero,
del Jobs act, delle pensioni d’oro, di quattrocento leggi, del finanziamento all’editoria, del canone Rai e via dicendo. Nessuno parla delle coperture economiche, qualcuno si limita a citare vagamente la lotta all’evasione fiscale e la spending review, obiettivi difficili da raggiungere, come sappiamo, e di scarso appeal in una corsa all’impazzata per l’accalappiamento di consensi e di voti. In realtà, la preoccupazione dei partiti è cercare di prevedere come andrà a finire, quali alleanze siano possibili e a che prezzo, quali siano gradite o meno agli elettori. C’è un collettivo disinteresse per gli aspetti pratici: la ripresa in atto non consente di allargare i cordoni della borsa. La nostra economia, che cresce con numeri e a ritmi inferiori rispetto agli altri Paesi europei, non è abbastanza forte e il debito pubblico è aumentato. Non è pensabile né ammissibile fare manovre in deficit, sapendo che nell’anno in corso la Bce ridurrà l’acquisto di titoli, il quantitative easing che ha favorito la ripresa economica. Ora non si chiede ai politici di presentarsi con il cilicio, ma almeno di non raccontare bufale insostenibili. Se la politica vuole riacquistare credibilità, le rimane un’ ultima chance: evitare di promettere quello che non potrà mantenere ed esigere da se stessa e dal Paese rigore e senso di responsabilità. Riprenda il discorso del contrasto all’evasione fiscale ( novanta miliardi l’anno, con punte del 60 per cento al Sud ) e dica come intende intensificare i controlli, magari ricorrendo all’anagrafe tributaria che già esiste con la funzione di monitorare i contribuenti, e incidere maggiormente sulle pene; in America l’infedeltà fiscale è un crimine e per gli evasori c’è la detenzione. Sarebbe una vittoria sull’inciviltà e significherebbe soldi per gli investimenti, che sono più posti di lavoro per i giovani, più consumi, migliori servizi, più welfare. L’abolizione delle tasse universitarie è una proposta infelice che sa di ideologie novecentesche e servirebbe solo a livellare ulteriormente verso il basso preparazione e competenze e rendere le nostre università meno competitive, l’esatto opposto di quello che ci serve. L’abolizione della Fornero è pura farneticazione, la flat tax al 20 per cento un sogno, l’abolizione del canone Rai una contraddizione, l’abolizione del Jobs Act un’imprudenza, l’abolizione del finanziamento all’editoria un atto dittatoriale. Equo sarebbe, invece, attribuire la pensione contributiva con valore retroattivo a tutti e impedire, come accade ora, che passi in eredità a tutto il parentado.