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Poesia. La poetessa fiorentina, Rosa Chiricosta, legge Pisana

“Nella Trafitta delle antinomie”, Helicon Edizioni, 2020
Tempo di lettura: 2 minuti

Nonostante il titolo, “Nella trafitta delle antinomie”, introduca e preannunci subito uno spaccato poco consolatorio, con due termini che di per sé lasciano trasparire durezza, instabilità (tettonica) e contrasti, non ci si aspetterebbe nei versi un susseguirsi di emozioni forti che, con i continui rimandi a situazioni di cocente attualità, fanno affiorare momenti opprimenti, specchio fedele e drammatico di questo nostro tempo. Eppure basta una parola, un verso, un riferimento alla Fede, all’attesa, per scorgere uno spiraglio da cui filtra un barlume di speranza: sarà la parola, quella divina accanto a quella poetica, il “ filo d’oro” che alimenterà l’attesa e la possibile, ancora, speranza .
Anche la metrica cederà a questa esigenza di denuncia di un mondo in disfacimento, privilegiando versi lunghi, quasi prosaici, ma che di tanto in tanto, quando vibrano di pathos, se si scorgono spiragli di luce, sembrano voler tornare al ritmo classico degli endecasillabi e settenari, un ritmo narrativo che si fa drammatico e franto, nei momenti più cupi.
Il lessico, ricercato ma senza artifici, evidenzia un patrimonio ampio che affonda le sue radici nel mondo classico e, nello stesso tempo, in quello teologico, cristiano, e filosofico. Spesso questi mondi, tramite il lessico soprattutto, ma non solo, si incontrano e dialogano tra di loro.
La Raccolta si apre con una metaforica e pessimistica visione delle “lingue che incespicano”, anche se l’anima del poeta ha “già narrato in voce solitaria nel deserto” l’umanità smarrita, a tratti, illuminandosi di fede, pur ripiombando poi nell’abisso di “simboli sbagliati” che aumentano “l’infelicità del mondo”.
La riflessione continua e si fa più dura, quasi disperata, nella negazione con cui inizia la seconda poesia: una cruda denuncia di una terra che cerca riscatto, mentre “uomini e donne del Paese/ nuotano nel mare della menzogna” e quelli che dovrebbero accogliere il lamento “lassù / tra banchi “possono solo togliersi la maschera, “divenuti tombe con ossi di morti”.
Il linguaggio del poeta si fa criptico e ricorre ad antitesi che rendano palpabile l’inquietudine che nasce dal “ricordo di un giorno di verità senza verità”. Si fa strada però l’attesa di vedere uno spiraglio e diventa tormento “in strazi di città”, manca ogni illusione “sui germi di promesse proclamate” e “l’insidia della piovra fa viscido il cammino”.
Lo sguardo di Pisana si volge quindi oltre i confini, all’Europa le cui radici sono “a brandelli” e le identità secolari si caricano di dubbi, sbriciolatisi “lungo il fiume della finzione” e, anche la pace, “l’irenismo” si svuota di significato se “ cade la memoria”… ed affiorano ancora, negli ultimi versi, “tombe” dal “silenzio delle moschee”.
La sera, a questo punto, si fa metafora antinomica della speranza che si dissolve al sopraggiungere della notte: “giungerà la notte in cui non parleremo più, scenderà l’oblio”; ma il poeta porta nel cuore “l’urlo della Croce”, mentre sente nel deserto intorno, tra “i palazzi” ove si balla la danza del gattopardo, “le memorie di ideali sognati sotto le stelle”. E si aprono visioni apocalittiche tra le pietre dove si nasconde “il sangue della morte” e “una voce delicata” invita a mangiare i frutti per poter entrare nella luce e diventare angelo. Ma ecco apparire le “lacrime di Dio nell’oscurità del giardino” e si cerca solo una “ torcia per rimanere umano”.
Il viaggio del poeta continua in un “mare sonnolento, un cimitero senza croci” e in un mare tempestoso tra “onde piccole, alte, maleodoranti” in cui “anche la barca di Pietro” è “scossa dai venti.” Sempre più affannosa si fa la ricerca della salvezza, di un “salvagente” per non andare alla rovina e aleggia sulle “coscienze l’angelo nero”, un affresco di “visi solcati da rughe d’ansia e di ferite di malessere” ma dal “vertice delle ferite” si cerca nonostante tutto “l’arcipelago della speranza ove trovare la cura”.
Il panorama, inquietante, dei versi di Pisana si popola di antitesi (“amaro zucchero” – “campagne che parlano di morte”) fino a culminare in un climax ascendente, in un “avvenire stanco di sogni” che diventa “tomba di rinascita”, da cui traspare un filo, benché tenue, di speranza di resurrezione nel bisogno di “vita vera”. E pure la primavera in arrivo porta con sé “cenere di verità tradite”. L’immagine della cenere nel dialogo con Teofilo (amante di Dio), interlocutore dell’evangelista Luca, sembrerebbe porre come ipotesi possibile (“spegnerebbe il pianto, alla morte legherebbe il filo della vita … se amassimo la sapienza”) uno sbocco, una salvezza nell’ amore per il sapere.
La prima parte della silloge si chiude con una lirica in cui convivono, in sintesi, tutte le contraddizioni che appartengono al nostro tempo, ma forse ad ogni tempo, perché appartengono alla condizione umana, con echi danteschi: nelle “palpebre cucite dall’invidia”, “i leoni curvi sotto il peso della nostra onnipotenza”e perfino “echi del contrappasso nelle tombe della gola con la lingua consumata da dolori senza fine”; ma poi si staglia immensa la figura di Lazzaro che illumina “ l’oscurità” e “ l’attesa di Qualcuno ( che ) venga e ci dica : vieni fuori !”
La seconda parte della silloge si apre con uno sguardo sul “mare di Pozzallo che suona di riposo” in cui passato e presente si confondono nella “brezza che giuoca con le onde” e questo momento di serenità avvicina il poeta al cielo. Giungono dal mare le voci inquiete e confuse di un presente contraddittorio, in cerca di risposte che, ancora una volta, ci si augura arrivino prima che “la nave perisca”. I ventotto di Dublino e l’Europa però sono insensibili” agli affari di carne umana” e tra “requiem” e “inni” attese e preghiere si può solo continuare a sperare ancora di superare “Dublino” e costruire una nuova e duratura “zattera della speranza” che sopravviva, nonostante la Babele delle lingue e le “parole infette”, nella consolazione degli “arcobaleni”.
Il panorama si fa sempre più cupo, allargandosi in ogni campo, mentre affiorano echi recuperati dalla storia, dal mito in un “gorgoglio di retorica” e “tutto si sfibra nella nebbia dei principi” “e sugli usci dei palazzi si annuncia l’inizio della rivolta”. Nuovamente la sera con “la terra ancora calda di sole “potrà” far crescere il grano della vita”. L’Italia diventa, nella carrellata che continua, uno stivale che, per liberarsi di “borse, spread e linee rosse” dovrà intonare il “Bella ciao”, con tutto quello che nell’immaginario collettivo questo motivo evoca. L’ironia si fa criptica e pesante, nel susseguirsi quasi plastico di termini che riprendono l’attualità: “populismo – piazza pulita” con protagonismi vuoti di contenuti in un elenco di parole che terminano in “isti” – polemisti – buonisti … che danno sfogo al disprezzo per una “palude putrefatta” che non lascia speranza di rifugio nemmeno nel mito. Anzi, scavando nel “sottosuolo” ci si scopre “agnello in mezzo ai lupi” e ci si “sperde nell’olimpo degli dei ove ognuno adora se stesso”.
Nulla sembra poter cambiare in una visione davvero apocalittica, anzi ogni tentativo si risolve in un fallimento e si scoprono “virus di invidia … maschere di tenebre” e muore “la speranza che l’acqua prevalga sui roghi del male”. Solo un angelo, messaggero divino, potrebbe aprire la porta di “Eirene”, ma la fragilità umana consente solo di “ costruire sogni” e restare attaccati “al filo di speranza che vince la disperazione”.
Eppure l’indifferenza continua a seminare morte e disperazione, cose che solo ritornando “a parlare la lingua del Dio vero” si potrebbe tentare ancora di superare: “Hablamos” diventa una preghiera quasi disperata anche se si sente nel profondo che “le parole di Luce” potrebbero aprire “le tombe” e “le spighe di grano” riempire i giardini dell’anima. Seguono liriche attraversate da “voci accorate di anime che il mare beve” mentre “mani tese feriscono l’aria umida” e il tutto prelude ad una nuova torre che “lacera l’Europa”, “terra da redimere”, terra in cui “la storia ricicla passi d’uomini” e si invertono i ruoli a ruoli inversi ed “ è istante ferito di democrazia.”
Un quadro senza luce che sembra quasi chiudersi con lo sbriciolarsi delle certezze e nel dolore muto delle città in cui “si piangono i feriti”; a rendere l’affresco ancora più cupo il passare in rassegna “Le Camere … un Pantheon di divinità trasformate in sanguisughe”, il “ Transatlantico” trasformato in “ postribolo di animali voraci”: un declino fino al nulla. E resta solo l’attesa che si muove però tra cambiamenti che virano verso l’indifferenza e l’incomunicabilità, anche se il poeta confessa di sentire il bisogno di“ Qualcuno che (m)l’aiuti a credere nella liberazione” da tutti quelli che continuano in vario modo a “ dipingere tele di terrore”.
Sul finire della Raccolta neo versi di Domenico Pisana sembrano assemblarsi, come chicchi di grano, le tante sillabe disseminate in tante delle liriche precedenti, magari solo con una parola, una breve frase, che consentono al lettore di contemplare ancora la primavera che avanza, nel silenzio di sere in cui “ la parola increata dal sapore di miele stipata nei libri di “ Omero, Virgilio, Euripide, Archiloco” e molti altri ancora, sa rendere “ limpida la stessa aria e la stessa discesa della notte” se “istanti di infinito” si possono ancora riempire di vita. La parola poetica riuscirà a cantare “la fanciulla che cade nelle mani del drago” e “le sillabe di verità recidono rami secchi”.
Il libro di Pisana lascia aperta la porta alla speranza se la parola può ancora farà rivivere i valori della nostra Costituzione e di tanti poeti da Quasimodo a Carducci, da D’Annunzio (quasi parafrasato) a Zanzotto. La Silloge si chiude infatti con i versi dedicati a questi poeti, in Appendice, e col sottotitolo “Omaggio del cuore”.

Rosa Chiricosta

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