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Sergio Carlacchiani tra poesia, teatro e voce narrante

Una personalità eclettica e fortemente segnata da tratti di spiritualità matura e sensibile, è sicuramente quella del marchigiano Sergio Carlacchiani. Di origini maceratesi, Carlacchiani ha attraversato nel tempo sentieri culturali di notevole spessore, che lo hanno visto cimentarsi in diversi campi come attore, regista, doppiatore, poeta, performer e pittore, assumendo anche la direzione artistica di varie rassegne teatrali, tra le quali “Donna/Modello”, “Poeti e Poesie da Decl/Amare”, “Live Poetry”, “Vita Vita” e “Poesia in Vita”.
E’ stato, altresì, voce narrante in diversi film, cortometraggi, documentari, e più volte ospite di importanti trasmissioni radiofoniche, oltre a quelle televisive, in Rai ed emittenti regionali e locali, nonché interprete di grandi poeti della letteratura italiana e straniera, quali Leopardi, Petrarca, Montale, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Pasolini, Garcia Lorca, Pessoa e Neruda.
Noi vogliamo occuparci in questa sede del Carlacchiani poeta, atteso che tutta la sua produzione lirica ha anche il vantaggio di essere impreziosita dalla sua voce narrante, la quale riesce, con quei tratti pausati, timbri passionali e variegazioni ritmiche, ad incidere fortemente nel lettore-ascoltatore, suscitando in lui sottili vibrazioni emotive. E leggendo ed ascoltando le sue poesie, che sono anche pubblicate su Youtube, mi sono venute in mente le parole del poeta britannico Wystan Hugh Auden, allorquando scrive: “Gli interrogativi che soprattutto mi interessano quando leggo una poesia sono due. Il primo è di carattere tecnico: ‘Ecco un marchingegno verbale. Come funziona?’. Il secondo è morale nel senso più ampio del termine: ‘Che tipo è colui che vive in questa poesia? Qual è la sua idea di ciò che è bene, di ciò che è giusto? E la sua idea del Maligno? Che cosa nasconde al lettore? Che cosa nasconde anche a se stesso?’” (W.H. AUDEN, La mano del tintore, Milano, Adelphi 1999, p. 70)
Ecco, queste stesse domande nascono quando ci si accosta alla poesia di Sergio Carlacchiani, la quale conosce i turbamenti del nostro tempo e si pone interrogativi laceranti; il paesaggio delle sue liriche è dominato da un sentire nel quale la vita si manifesta nelle sue spinte fosche, nelle forme di una “bruciante oscurità”, nella fisionomia di una frontiera giornaliera caratterizzata da un “disastro” da affrontare. La sua è, tuttavia, una voce di resistenza al negativo, un immergersi nella forza della “ragione” per affrontare le vicissitudini e trovare la salvezza:

Trascinati nell’abisso immersi in quella
bruciante oscurità crediamo di morire
eppure la nostra resistenza è superiore
al disastro che ogni giorno dobbiamo
vivere e sostenere non c’ è niente
da capire siamo più forti di ciò che
supponiamo ci superiamo ogni volta
che l’estrema condizione ce lo impone
la ragione ci salva non la religione
eppure occhieggiamo nel sogno
indeciso dai finestrini del Paradiso.
(Dai finestrini del Paradiso)

Il canto poetico di Carlacchiani disvela “la follia del mondo” e si organizza in armoniosa sintesi di voce ed anima, con una tensione morale che si fa portatrice “di magia e bellezza “ e che si incarna nella realtà umana fino “a pellegrinare sparire in versi”. E così, il poeta e l’attore si muovono all’unisono creando azioni e reazioni tra tragico e sublime, prospettive visive e analogie, grazie ad una recitazione che scruta le parole e le immagini con affabulanti modi espressionistici e che intreccia sensi e segni nella coscienza percepita come un “sassolino / che si scorge per le strade”, fino a divenire quasi altare dal quale “rilucente per volontà divina dirama /come un’antenna la voce ronzante pulsante dello Spirito Santo”:

…ora vaga tra i resti del niente la coscienza
rivolta silente preghiera rivelata essa dona
non è un’ombra celeste vaga ed eterea ma
uscendo dall’umile dimora è un sassolino
che si scorge per le strade della mattina
bianco rilucente per volontà divina dirama
come un’antenna la voce ronzante pulsante
dello Spirito Santo che s’espande in accordo
come canto beato in tutto l’immenso creato.
(VERSI D’ ALTRI ME, Nel vento dell’alba un miracolo)

Quella di Sergio Carlacchiani è una versificazione che cerca, dentro la liquidità del post moderno, una “radicalità metodologica per fornire / strumenti di bellezza per farsi / carico dei mali complessi del mondo…in Nell’inediacenza; che tende, altresì, verso un orizzonte di senso ove possa avvenire il superamento del “posticcio”, della retorica e della finzione di pirandelliana memoria.
L’autore giunge spesso alla constatazione dello stato di vuoto che plagia il mondo e l’uomo costretto ad abitare il nulla, e trova, a volte, ripiego nella memoria degli affetti familiari, nella figura del padre, al quale si rivolge con parole cariche di sentimento e di speranza che diventano alimento anche per lui: “… ricominciare / non è troppo tardi niente sarà perduto / anzi al contrario la vita è stata guarita / totalmente risorta appena ridedicata / niente ti fermerà più…”, in La morte felice. Questo dialogo tra padre e figlio sembra quasi, in molte altre liriche, il rispecchiamento di una dimensione teologica, (“…non c’è morte i candelabri sono dorati dalla luce / la voce non è più disperato grido ma canto di lode / mangerai dall’albero della vera vita il frutto…”, in E’ arrivato padre il momento), e si estende poi lungo un percorso ove i temi che l’autore predilige si muovono nell’ottica di una “introflessione” con cui egli disegna il suo personale concetto di arte:
Prego prendete posto davanti la mia arte
aprite le orecchie e spalancate gli occhi
non sedetevi mai scomodi dovete stare
dovete fare fatica almeno a presenziare
l’arte per essere compresa deve essere
cercata inseguita vissuta così più o meno
come spesso l’hanno creata i veri artisti.
(Introflessione)

Il mondo poetico di Sergio Carlacchiani conosce l’altezza e la profondità di un sentire sincero e privo di orpelli; i suoi versi sono ora immediati perché intrisi dei suoi stati d’animo e delle sue oscillazioni intime ed interiori; ora più ermetici e condotti dentro un alveo metafisico e filosofico nel quale si agita il “male sotterraneo” della condizione esistenziale dell’uomo del post moderno; ma al male, tuttavia, il poeta dichiara apertamente di preferire la vita:

Sulla pagina nera della morte
senza posa prima che sia finita
scrivere con una bianca piuma
non biasimarmi preferisco la vita.
(Preferisco la vita)

La poesia, l’arte e la recitazione, così, diventano in Carlacchiani una possibilità di risalimento dall’abisso, una “resurrectio” che trae bellezza e speranza dalle vie storte del negativo esistente. Questa, del resto, è la decisione dell’artista apertamente professata nel tentativo di “allontanare la morte” riposta – afferma Carlacchiani – in “uno sperduto / angolo dei ricordi tristi”. Egli, insomma, si percepisce “facile preda dell’arte e della bellezza”, vive “l’essere uomo e artista / come su una pista smisurata”( in Artista vivo dall’io assertivo), trovando luce sia nell’ordine naturale delle cose, sia nella “notte chiara e distinta” che “si fa labile come l’esistenza”, sia nella “rotondità vaga della luna” ove “ l’io subisce la sua falce lo stesso rito / adolescente innamorato scioglie l’enigma / indefinibile dietro l’ ombra sfatta sua narcisa / capriolando in uno slancio amoroso si dissolve”, in Disfacimento notturno.
Il vissuto poetico di Carlacchiani si snoda, dunque, con una viva articolazione di essenziali trasformazioni, specie quando egli scioglie la sua voce in versi (“…mi sto sciogliendo in versi / non trovando risposte vere…”, in La fortuna non dimora ), o quando sulla scena “recita la sua sorte”, o quando sullo schermo di un computer o davanti ad una finestra porta a passeggio “senza nessuna precisa meta /qualche nome di vecchio poeta”; gli oggetti, come si può notare, non appaiono all’autore mere cose manipolabili, ma sono l’occasione di una spinta intellettuale e affettiva, di un sentimento che si eleva per “stanare ombre grigie”, per denudare la sua insufficienza rispetto al Perfetto, quasi in un clima di confessione: “Come un deficiente / in un angolo buio / semichiusi gl’occhi / io cristiano tiepido / più che credente / miserabile umano / chiedendo perdono / a mani giunte oggi / ho voluto sfogarmi / con il Cristo in croce / senza aspettarmi nulla / tantomeno di sentirne / la rimproverante voce…”, in La preghiera dell’insufficiente.
Come tutti i poeti, Sergio Carlacchiani modella sapientemente i propri testi, ne modifica la struttura e gli assetti, gli dà forma con un “nous lirico” meditativo e problematico che si dispiega dentro una poetica esistenzialista, realista, giuocata con densità fonica, lessicale e sintattica. E in questo suo procedere lirico, la versificazione conosce sia guadagni lirici di rara bellezza, voli etici ed estetici impenetrabili e di complessa anima chiarificatrice, sia livelli prosodici ove i toni conversativi s’impongono nettamente facendo prevalere una varietà di elementi che assorbono la spazio delle analogie, delle allusioni e del movimento evocativo della comunicazione poetica. Certo è che la poesia di Sergio Carlacchiani è ricca di vita, e irrompe, con la sua voce, nella realtà sociale del nostro tempo, portando l’attenzione dei suoi lettori/ascoltatori sul “cuore consegnato all’ infelicità”; sui sogni che “come falene inseguono la luce”; sulla gente che “qui è timida non abituata al sorrisoIn questa specie di gelido deserto”; “sull’ orrore che si stende sullo splendore”, fino a giungere alla conclusione che:

Al giorno d’ oggi nulla è
più scontato e già morto
di quel che sembra nuovo
brillante vivo e più creativo.
(Più scontato è già morto)

La parola poetica di Carlacchiani vive pertanto il respiro di una spiritualità d’incarnazione e si eleva formandosi “dal basso”, caricandosi delle frastagliate contraddizioni dell’esistenza in divenire; il che spiega anche i mutamenti di linguaggio delle sue poesie che, vestendosi anche di umorismo, parodia e ironia, utilizzano andamenti prosodici con lemmi comuni ed usali. Si leggano, ad esempio, le poesie “Punti di vista”, “Niente forse ha un senso”, “Ci manca il tempo”, “Mal viventi”, “Drammaturgia d’un incubo”, “Foibe: giorno del ricordo” e altre, ove la versificazione e le scelte espressionistiche affondano le radici in un orizzonte etico e psicologico che si essenzializza in denuncia delle illusioni e delle mistificazioni sociali, in una stigmatizzazione dei vari processi con cui gli uomini e le ideologie sociali hanno la pretesa di definire il bene e il male.
Dall’insieme delle poesie che Sergio Carlacchiani ha fatto approdare nelle sue raccolte lungo il suo itinerario poetico, risulta un chiaro valore di esperienza totale, un messaggio essenziale del rapporto dell’io con il mondo, dell’anima con Dio all’interno del bisogno morale dell’autore, il quale fa uso di un linguaggio poetico che conosce echi ermetici, spinte di lirismo, affacci filosofici, e suggestivi affondi in varie e mutevoli forme e dimensioni di realismo e di neorealismo.
Questa coscienza poetica di Carlacchiani fa di lui, per concludere, un “artista totale” alla maniera della tradizione poetica del primo Novecento spagnolo, ove troviamo un quadro caratterizzato da affacci poetici molto originali e spesso anche estremizzati nella direzione del reale: è sufficiente, a riguardo, ricordare nomi come Neruda, Aleixandre, Larrea, Lorca, Alberti, Gongora e Antonio Machado.
Insomma, la poesia di Sergio Carlacchiani piace perché la sua identità di poeta appare quella dell’“artista totale”, cioè di colui che è presente pienamente nella vita sociale della sua terra e che s’impone non solo per i suoi versi ma anche per esperienze e composizioni vocali e teatrali, per doppiaggi e per la realizzazione di opere figurative e, financo, di cura di spettacoli.
La sua immagine non è quella del poeta chiuso nella sua torre eburnea, nelle sue speculazioni intellettualistiche, nella magia delle sue alchimie, ma quella di un artista geniale, come lui stesso ama dire, non certo per vanteria, ma con “un certo imbarazzo”:

Ogni giorno approfondisco
ahimè la dolorosa conoscenza
di me come artista geniale e
quello che mi fa male che mi
procura oh sì un certo imbarazzo
è che da quando son nato è un fatto
non riesco a trovare risposte perché
son così matto non ci capisco un cazzo!
P. S.
Perché proprio a me questo complessissimo dono
di cui sola non mi sfugge la portata divina?
(Come artista geniale)

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